A Tokyo e nelle altre città giapponesi, in realtà, guardare nelle vetrine dei locali piatti che sembrano veri e scegliere cosa mangiare in base al cibo fake più allettante è abitudine consolidata. La storia è andata così: nel periodo della restaurazione Meiji, ovvero a cavallo fra Ottocento e Novecento, i giapponesi cominciano ad avere contatti con l’Occidente, e oltre ai modelli politici e sociali importano anche alcuni cibi. Ma gli avventori delle locande diffidano dei nuovi sapori e su questo fronte gli affari non vanno granché. L’idea di spiegare visivamente le novità culinarie creando piatti in cera viene, negli anni Trenta, a tale Takizo Iwasaki (poi fondatore della Iwasaki Be-I, attualmente leader nel settore), che costruisce un’omelette di riso tale e quale a una commestibile. È da questa trovata, accolta con successo dai ristoratori di Tokyo e dintorni e dai loro clienti, che da lì a breve è nata una tradizione artigiana che sconfina nell’arte, tanto che alcuni esemplari sono finiti addirittura nelle bacheche del Victoria and Albert Museum di Londra. Per noi occidentali, abituati a réclame che “hanno il solo scopo di rappresentare il prodotto” è impresa ardua comprendere come le imitazioni in plastica (che ha ormai in gran parte sostituito la cera) possano invece avere lo scopo di avvicinarsi il più possibile al reale: un giapponese che si rispetti desidera che sia il pasto che mangerà a dover assomigliare come una goccia d’acqua al suo sampuru, e non certo il contrario.
Quello che noi etichettiamo come cattivo gusto – a chi farebbe gola un piatto di tagliatelle al ragù lucido e inodore, esposto dietro a una lastra di vetro? – per loro è sinonimo di qualità. Sono i ristoranti di alto livello, infatti, quelli che vantano le imitazioni più somiglianti al reale e soprattutto le più preziose. Per farsi un’idea dei prezzi: un minuscolo portachiavi (ebbene sì, esistono anche i gadget fatti col cibo di plastica) decorato con un pezzetto di finto sushi costa 1000 yen, che corrispondono all’incirca ai nostri dieci euro. Un ristoratore che si faccia rifare artigianalmente l’intero menu può spendere fino a un milione di yen.